Forme di restituzione

Chef Binta: Riformulare le tradizioni. Innovazione culinaria come patrimonio culturale immateriale

 

L’idea di “tradizione” è estremamente ambigua. Le accezioni comuni di tradizione possono essere fuorvianti perché spesso sono falsamente legate alla presunta natura statica e senza tempo delle pratiche culturali a cui fanno riferimento. Nella vita reale, la tradizione è molto più dinamica e mutevole: seleziona e trasmette costumi, pratiche, narrazioni e conoscenze, richiamando il passato e adattandolo alle esigenze del presente.

È importante tenere presente che la tradizione va ben oltre le culture materiali codificate in manufatti, strumenti o edifici. In tutto il mondo, la tradizione è definita anche in una moltitudine di forme immateriali che possono essere performative, cerimoniali o persino ordina rie. Si pensi, ad esempio, ai saluti, al galateo, ai canti e alle danze, alla creazione e all’ascolto di musica, alla preparazione o al consumo di cibo. Tutte queste attività riproducono, codificano e trasmettono le tradizioni in modi immateriali; sono fondamentali per la sopravvivenza delle tradizioni e delle società, per le quali rappresentano alcune delle forme più importanti di valore sociale.

Questa riformulazione della tradizione oggi viene portata in primo piano da Chef Binta (Sierra Leone, 1984) sotto forma di una Masterclass (Fonio per Tutt3. Live cooking e Racconti di Storie Fulani) e di una Meet & Greet lecture (Testare! Assaggiare! La Cucina dell’Africa Occidentale come Patrimonio Culturale Immateriale) accompagnata dall’assaggio di sette diversi tipi di canapè al Museo delle Civiltà – Palazzo delle Arti e Tradizioni Popolari. Chef Binta presenta un racconto della cucina dell’Africa occidentale in relazione al popolo nomade Fulani, con un approccio che valorizza le sue radici storiche e inquadra le sue tradizioni come fondamentali per la sua continua evoluzione.

Il popolo Fulani, che vive in tutta l’Africa occidentale e centrale, rappresenta il più grande gruppo pastorale e nomade del mondo. Chef Binta descrive lo stile di vita dei Fulani come intrinsecamente sostenibile e minimalista, in cui la vita senza legami materiali è parte integrante della loro identità nomade. Chef Binta cattura gli aspetti immateriali della tradizione Fulani nella sua serie di cene Dine On A Mat, in cui i gesti di sedersi a terra per condividere il pasto, di tenere le ciotole alzate per far mangiare le persone anziane, e di aspettare di dividere la carne tra i/le commensali prima di consumarla, servono come medium per trasmettere la tradizione Fulani attraverso l’atto della convivialità. Prima persona africana a ricevere il Basque Culinary World Prize nel 2022, Chef Binta ha destinato i fondi del premio alla costruzione della sua associazione, la Fulani Kitchen Foundation, che ha avuto un impatto su oltre 300 famiglie di 12 comunità e 4 regioni del Ghana. Chef Binta pone una forte enfasi sulla cucina che valorizza gli ingredienti, il suo lavoro ruota attorno al fonio, un cereale antico che cresce in poche settimane, resiste alle alte temperature e richiede poca acqua per essere prodotto. La produzione del cereale illustra anche come le pratiche agricole locali guidate dalle donne intersecano i temi globali della sostenibilità e della sicurezza alimentare, nonché dell’empowerment intersezionale delle donne.

La collaborazione con Chef Binta, inoltre, costituisce una parte importante del nuovo programma del Museo delle Civiltà, basato su una progressiva messa in discussione e aggiornamento della sua storia e della sua ideologia istituzionale. Questo nuovo programma, come enunciato nella lettera del direttore Andrea Viliani, dal titolo “Quali Civiltà” (luglio 2022), sostiene l’urgente necessità che il museo rifletta sistematicamente sulla sua identità e sulle sue funzioni, chiedendosi se e come possa operare oggi un museo antropologico contemporaneo. Muovendosi in questa direzione, la collaborazione con Chef Binta si inserisce nell’attenzione del museo sul proprio ruolo, attuale e tradizionale.

Il nucleo principale delle collezioni del Museo delle Arti e Tradizioni Popolari, confluito nel 2016 nel Museo delle Civiltà, risale all’Esposizione Etnografica del 1911, tenutasi a Roma e organizzata dall’antropologo ed etnografo italiano Lamberto Loria (1855-1913). Fra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo con il termine “etnografia” ci si riferiva alla registrazione e analisi di una cultura o di una società, solitamente basandosi su dati di prima o seconda mano, e poi mediante quello che – intorno agli anni Venti del XX secolo – fu definito il metodo dell’“osservazione partecipante”. L’etnografia si traduceva in resoconti scritti che avevano l’obiettivo di descrivere un popolo, un luogo o un’istituzione da una posizione presentata come non soggettiva: solo più tardi la riflessione antropologica rivalutò la presunta oggettività del poter osservare e descrivere gli altri, e le dinamiche di potere associate a tali azioni.

L’etnografia è diventata particolarmente problematica all’inizio del XIX secolo, poiché venne sempre più utilizzata come forte strumento dell’Eurocentrismo per studiare società e culture non occidentali.

Gli studi etnografici all’apice delle imprese coloniali otto-novecentesche occidentali hanno creato una narrazione della differenza che inferiorizzava, primitivizzava, feticizzava e alterizzava le società extraeuropee. I risultati delle ricerche etnografiche furono strumentalizzati per “provare” la superiorità dell’Occidente e giustificare le missioni e invasioni coloniali, mentre gli studi etnografici supportavano la raccolta e l’esposizione di oggetti di cultura materiale nelle vetrine dei musei europei. Lo stesso Loria, cofondatore dell’Istituto Coloniale Italiano, operò in tale contesto e con queste prospettive, e le collezioni del Museo delle Arti e Tradizioni Popolari rappresentarono conseguentemente l’applicazione degli studi etnografici (derivanti da quelli che Loria definiva i suoi “studi di etnografia esotica”, in riferimento agli oltre 2000 oggetti presi in Papua Nuova Guinea) al contesto italiano.

Con l’avvento della modernità, gli antropologi e i musei hanno iniziato a raccogliere oggetti di cultura materiale di piccole dimensioni e di produzione artigianale per preservarli dalla minaccia di smarrimento e perdita posta dall’industria e dai metodi di produzione su larga scala. Il patrimonio culturale immateriale, che è molto più difficile da raccogliere, archiviare e registrare, ha subito una più rapida trasformazione durante questo cambiamento economico, eppure i musei hanno poco da mostrarci su come e perché queste culture si siano evolute dalla fine del XIX secolo ai giorni nostri. A partire dalla seconda metà del XX secolo, nuove attività di ricerca antropologica hanno iniziato a raccogliere oggetti di uso quotidiano che precedentemente erano esclusi dai musei. In questo modo hanno rivalutato le ragioni della loro iniziale marginalizzazione, conferendo a queste nuove raccolte e metodi di ricerca un profondo interesse concettuale, oltre che un importanza istituzionale, incoraggiando, in ultima analisi, la ridefinizione della tradizione come dinamica, progressiva e contemporanea.

È forse per questo motivo che le operatrici e gli operatori contemporanei della cultura immateriale, come Chef Binta, hanno iniziato a inquadrare il loro ruolo come custodi e interpreti delle proprie tradizioni nel presente: oltre a documentare e reintrodurre alcuni di questi modi tradizionali di sussistenza e di produzione a nuovi pubblici, li stanno trasmettendo, adattando e preservando per le generazioni future.

Aggiungendo valore alle culture materiali e immateriali dell’oggigiorno all’interno del Museo delle Civiltà, Chef Binta propone una narrazione della cucina dell’Africa occidentale e del popolo Fulani che li mette in primo piano come agenti della propria storia, partecipando attivamente alla collocazione della tradizione, in evoluzione e autodeterminata.

Questo approccio viene ulteriormente rappresentato da un intervento curatoriale sulle vetrine espositive vuote presenti nella Sala delle Colonne. Il loro vuoto riflette sulla pratica museale, come raccogliere, selezionare e narrare, attraverso l’uso di pre-spaziati che sollecitano domande, come, ad esempio, cosa significa mettere in mostra le tradizioni? Si va così ad interrogare la dicotomia immaterialità/materialità nel contesto unico di un museo dedicato alle tradizioni, dove la natura effimera di un laboratorio di una figura come Chef Binta può essere intesa come necessariamente temporanea, soprattutto perché legata al consumo fugace di cibo, offrendo un contrasto con la permanenza degli oggetti museali.

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