Una conversazione tra Gala Porras-Kim e Matteo Lucchetti
Questa conversazione è stata originariamente pubblicata nella brochure digitale EUR_Asia, realizzata dal Museo delle Civiltà e dal MAO-Museo d’Arte Orientale di Torino nell’ambito della mostra EUR_Asia (3 ottobre – in progress) al Museo delle Civiltà. La conversazione esplora l’installazione A Recollection Returns with a Soft Touch dell’artista Gala Porras-Kim, risultato della sua research fellowship al Museo e presentata nel contesto di EUR_Asia.
L’installazione di Gala Porras-Kim A Recollection Returns with a Soft Touch è il risultato di un lavoro cominciato nel 2022, durante la Research Fellowship dell’artista al Museo delle Civiltà. Per due anni Porras-Kim si è immersa nei sistemi di catalogazione delle varie collezioni e li ha messi in relazione con le biografie dei singoli oggetti, riconcependo le collezioni come entità viventi dotate di una soggettività intrinseca sviluppata nel tempo e nello spazio in relazione al loro contesto, alle loro funzioni e ai loro significati originari, nonché alle interpretazioni dell’istituzione museale.
Ripercorrendo la storia dei materiali e delle tecniche usate nella creazione di questi oggetti-soggetti e ricostruendo le diverse eredità e storie culturali che sopravvivono alla loro interpretazione nell’istituzione museale, Porras-Kim porta alla luce la dicotomia tra le loro origini – nei diversi contesti rituali – e l’iniquità dello sguardo orientalista occidentale nel risignificarle come oggetti da museo. L’artista ricontestualizza gli oggetti e, nel farlo, illustra i processi che li hanno portati a far parte delle collezioni, osserva le loro trasformazioni materiali e immateriali, e condivide la conoscenza che ha permesso di preservarli, concentrandosi su quella che chiama «l’ansia da conservazione» dei curatori museali.
In A Recollection Returns with a Soft Touch, Porras-Kim ha chiesto ai membri dello staff che si prende cura delle collezioni dell’ex Museo di Arte Orientale il permesso di filmarli mentre presentavano alcuni oggetti ai quali erano particolarmente legati per ragioni professionali o personali. Le loro storie sono presentate nelle stesse teche che ospitano gli oggetti, dando così alle parole, ai ricordi e alle sensibilità dei funzionari curatori una visibilità rara, diversa dalla voce ufficiale del Museo, apparentemente neutra e imparziale. Chiedendo ai funzionari curatori di rispondere personalmente, l’opera infrange l’illusione che gli oggetti storici possano essere trattati soltanto attraverso un approccio scientifico, per portare in primo piano gli autori del nostro modo di intendere il passato. Nei video vediamo soltanto le mani, che toccano e muovono gli oggetti della collezione durante il racconto di queste storie; gli oggetti assumono così un aspetto spettrale, come se fossero apparizioni delle tante vite che hanno vissuto. Il gesto di dare materialità a queste diverse interpretazioni conferma che è possibile instaurare un rapporto sensibile con tutte le collezioni dei musei, poiché in ognuna coesistono anche le vite e le storie delle persone che ne hanno assicurato la persistenza e la conservazione nel tempo. Nella conversazione che segue, il curatore per le Arti e le Culture Contemporanee al Museo delle Civiltà, Matteo Lucchetti, dialoga con Gala Porras-Kim sulla sua pratica artistica e sul processo di creazione di A Recollection Returns with a Soft Touch.
Matteo Lucchetti: La mia prima domanda riguarda la tua pratica artistica, e in particolare la tua scelta di approfondire la conoscenza sui vari tipi di musei, focalizzandoti su quelli enciclopedici, etnografici e accademici, costruiti attorno alla prospettiva occidentale che crea narrazioni proprie attorno agli oggetti culturali del mondo. Hai sviluppato una metodologia che parte dall’atto del riconoscere, tra queste narrazioni, un certo grado di ri-contestualizzazione degli oggetti e delle loro materialità che appartengono a persone che non hanno avuto un ruolo in questo inquadramento. Hai mai pensato che il tuo lavoro potesse diventare uno strumento per liberare gli oggetti dal gesto di cattura che li ha decontestualizzati dai loro reali significati?
Gala Porras-Kim: Penso che molti musei sembrino simili ma in realtà sono molto diversi. Il modo in cui affrontano le sfide che le persone ereditano dal passato – perché in genere ogni collezione si accumula in modo specifico in un periodo di tempo molto lungo – è in realtà piuttosto diverso in ogni istituzione, e quando analizzo i musei mi piace percepire la personalità specifica della collezione. Per farlo bisogna indagare la catalogazione, la conservazione o il modo di esporre le collezioni, e anche interrogarsi su quanto è distante la mission del museo dal modo in cui si realizza nel concreto. La metodologia esistente non ha la flessibilità di incorporare tutti i contesti in cui è esistito il materiale storico, perciò bisogna trovare delle scappatoie, dei modi per affrontare i problemi reali in questa rigida e ristretta cornice istituzionale. I musei credono di poter essere oggettivi, ma c’è tanta soggettività nell’affrontare queste questioni non pratiche, come per esempio il problema di come conservare le cose per sempre o come raccontare una vera storia del passato. Non c’è modo di farlo in questo spazio ristretto. Parte del lavoro sta nel riconoscere la soggettività sottesa a queste decisioni.
ML: Che effetto ti fa pensare che il tuo lavoro possa o meno liberare gli oggetti da queste soluzioni metodologiche molto specifiche e situate?
GPK: Non penso in termini di liberarli, ma di renderli più densi. L’oggetto esisteva già senza il museo, ma adesso si trova al suo interno. Alcuni oggetti storici avevano una funzione nel contesto in cui esistevano prima che arrivassero nel museo, e dunque il fatto che ora siano nella collezione storica non significa che quella funzione sia cessata. I musei sono contenitori contemporanei, e al loro interno le diverse storie collettive accadono contemporaneamente. Non si cancellano a vicenda. Il problema è quando un’istituzione presenta l’oggetto al pubblico in un certo modo, semplicemente come un oggetto storico, quando in realtà quell’oggetto unisce tutti questi livelli. È storico, ma è anche la cosa precedente, è parte della natura ed è anche parte del contesto degli esseri umani o dell’ambiente. È tutte queste cose insieme. Perciò io non sto necessariamente liberando gli oggetti, piuttosto sto riconoscendo che questi materiali sono parte di altri mondi.
ML: Hai accennato che nella tua opera si rivela la soggettività presente in ogni museo, e «l’ansia del funzionario curatore» è forse uno dei punti di partenza del tuo lavoro. Puoi approfondire questo elemento dell’ansia in relazione al rapporto che stabilisci con i curatori e i funzionari curatori dei musei?
GPK: Credo che forse l’ansia esiste perché i curatori, i funzionari curatori e gli archivisti sanno già che c’è un conflitto tra il modo in cui praticano il loro lavoro e la cura degli oggetti in una collezione che trascende la loro materialità. I visitatori non capiscono che molte delle decisioni che queste persone devono prendere si basano su un’interpretazione soggettiva. Il legno ha le proprie specifiche scientifiche e i suoi bisogni di conservazione, ma l’oggetto in sé non è soltanto il suo materiale; sì, dal punto di vista fisico è legno, ma il legno è soltanto una sorta di contenitore di altre informazioni culturali, che si manifestano attraverso la forma. Come si preserva questo lato culturale? È questo il lavoro dei curatori: mediare tra quella storia passata e le proprie interpretazioni.
ML: Mi hai raccontato di essere cresciuta da genitori con una formazione accademica, che hai usato per giocare con loro a catalogare oggetti quotidiani, e di come questa familiarità con l’atto fondativo della creazione del museo ti fa pensare al tuo lavoro come a una sorta di ricerca accademica attraverso le immagini e i materiali visivi. Immagino che la tua pratica artistica crei delle vie d’uscita per ciò che l’accademia considera inappropriato e non accettabile in base ai criteri della peer-review. Sei d’accordo con l’idea che il tuo lavoro potrebbe essere visto anche come ricerca accademica? È possibile comparare la ricerca accademica e la tua pratica? Dove riscontri delle similitudini e dove delle discrepanze?
GPK: Penso che questa domanda rientri nel discorso della catalogazione e classificazione. Dipende da quali sono, per una persona, i confini della ricerca accademica e dell’arte: le persone hanno aspettative diverse nei confronti di ciò che è accademico e ciò che non lo è. Per me non è affatto una questione di confini. Vengo da una sfera istituzionale occidentale, e ho fatto un grande sforzo per imparare, disimparare e calmare certe mie aspettative sui requisiti che una cosa deve avere perché sembri rientrare in questo confine. Ma quando pensi a quanta conoscenza esiste al di fuori dell’istituzione ti chiedi perché, come mai non viene integrata? Per esempio, imparare la storia attraverso le tradizioni orali è un modo molto diverso e democratico di trasmettere informazioni, ma perché preferiamo imparare le tradizioni orali sui libri? Si tratta di allentare la forma dell’informazione e del suo confezionamento. Qual è la parte essenziale? È l’informazione vera o il modo in cui è presentata? Quando ho iniziato a concepire opere, ne ho presentate molte a conferenze accademiche. Pensavo che il campo dell’arte avesse i confini più vasti, ma mi sembra che le persone pongano ancora confini dove non ce ne dovrebbero essere affatto. Fare ricerca artistica che possa adattarsi a un contesto accademico è molto difficile, perché dovrebbe soddisfare tutti i requisiti. Ho realizzato molti progetti all’interno di istituzioni accademiche perché vorrei che le strutture a lungo termine si avvicinino alla ricerca in modo diverso. La forma che prendono le informazioni è come un tunnel, e al di fuori di questa bisogna inventare.
MK: Mi piace l’immagine di allentare le strutture prestabilite, estendendole per ampliare i punti di vista.
GPK: Anche gli accademici estendono sempre le strutture date. Trovano scappatoie usando termini che altre persone riconosceranno, così che non sembri una scappatoia quando senza dubbio lo è. Lo stesso vale per la legge: sembra rigida, ma in realtà è molto soggettiva. Se sai come funziona l’istituzione puoi spostare le regole continuamente. Quando sono nello studio, il mio materiale è il museo, l’istituzione o la collezione, e cerco di apprenderne le caratteristiche e capire il modo in cui si muove, come si fa in altri linguaggi artistici quando si testano i materiali.
ML: La prima volta che hai visitato il Museo delle Civiltà pensavi di essere in un museo unitario e invece hai provato l’esperienza di un museo fatto di diversi musei, in cui emerge il contrasto tra modalità di catalogazione totalmente diverse. A volte apparentemente prive di senso l’una con l’altra, o con delle lacune che non permettono la lettura del catalogo come infrastruttura funzionante del museo. Quando hai affrontato il Museo delle Civiltà e ti sei resa conto della materialità polifonica su cui era stato plasmato, qual è stata la tua prima impressione?
GPK: Ho trovato singolare che il museo sembrasse frammentato, perché al suo interno molte di queste collezioni sono ancora separate. Tutti i musei sono fatti di collezioni diverse, ma nel tempo le collezioni subiscono una sorta di omogeneizzazione e vengono assorbite in una forma nuova che le fa sembrare un’unità, una collezione nuova. Nelle vostre collezioni la provenienza delle opere è stata aggiornata, ma si vedono ancora le particolarità di ognuna delle collezioni precedenti che la costituiscono. Ho avuto la sensazione che il museo fosse ancora irrisolto, come una capsula del tempo dove si possono ancora riconoscere le particolari personalità di ogni sezione perché non è stata totalmente fusa nell’idea o nella visione che sarebbe sfociata in una collezione unica. Come un polpo in cui le diverse parti sono, in teoria, attaccate a un punto centrale, che penso non esista ancora. Sono solo tentacoli senza un corpo centrale. Ma anche se le collezioni non sono collegate attraverso una catalogazione comune, è il personale addetto alla conservazione a collegarle materialmente attraversando tutte le sezioni.
ML: Dopo aver avuto questa prima visione d’insieme, il passo successivo è stato lavorare sulla Collezione Orientale Nazionale. Come e perché hai deciso che il tema della tua opera sarebbe stato chiedere ai funzionari curatori di parlare dei loro oggetti preferiti, quelli a cui si sentivano più legati?
GPK: Penso che i funzionari curatori debbano pensare sempre in maniera talmente scientifica che quando gli chiedi qualcosa di soggettivo spesso per loro è difficile rispondere. Il progetto si basa sul chiedere ai funzionari curatori del museo di scegliere i loro oggetti preferiti, materiali con cui hanno lavorato o che hanno usato per insegnare. Volevo riprenderli mentre dicevano qual era la ragione per cui sono legati personalmente ai manufatti mentre li tenevano in mano, perché i funzionari curatori sono le uniche persone che intervengono fisicamente sull’oggetto, perciò cercano di essere molto obiettivi e il loro modo di toccare è sempre scientifico. Ma mentre li descrivono, in realtà, si può cominciare a riconoscere un modo di toccare molto personale. Il funzionario curatore, che dovrebbe toccare l’oggetto in maniera scientifica, qui lo tocca in modo molto soggettivo e parla del suo rapporto con quel materiale, a differenza di quanto fa ogni giorno nel suo lavoro, che in generale prevede una voce distaccata e neutrale.
ML: Dai loro racconti è emerso qualche aneddoto che ricordi o che ti ha particolarmente colpito?
GPK: Ognuno dei funzionari curatori aveva un legame emotivo con l’oggetto specifico, che era la premessa dell’opera, ma il fatto che fossero più o meno disponibili o esitanti ha reso il progetto reale, perché avevo chiesto loro di uscire dal loro lavoro quotidiano. Mi sono piaciuti non solo gli aneddoti, ma soprattutto il salto emotivo che sta nel rendersi conto che il loro modo di toccare è connesso alla soggettività e al corpo.
Il modo di toccare è molto significativo per me. Gli italiani fanno un sacco di gesti, perciò volevo che emergesse questo aspetto, perché attraverso il modo di toccare si percepisce lo spostamento dall’istituzione all’individuo, e il fatto che queste due cose coesistono nello stesso corpo. Tenere in mano un oggetto scientificamente è molto diverso dal tenerlo in mano emotivamente.
A proposito delle mani, ho riflettuto anche sul fatto che quando vedi un oggetto così antico, puoi immaginare tante generazioni diverse come mani fantasma che lo toccano in maniera molto simile. Quando le persone vedono l’oggetto in un museo, possono anche immaginare questo aspetto. Come usavano quell’oggetto le persone e come vi hanno interagito? Una delle cesure più paradossali nella storia di questi oggetti è che nessuno li tocca più… c’è una ciotola da cui qualcuno beveva ogni giorno e tutt’a un tratto finisce in una teca, nessuno la toccherà più a parte il funzionario curatore. In questo senso, dal punto di vista degli oggetti, quando una cosa è stata maneggiata e toccata così spesso, ed è costitutiva dell’altra versione non storica della sua esistenza, attraverso il modo di toccare istituzionale la sua storia si può ricostruire soltanto in parte.
ML: Certo. L’elemento spettrale ricorre anche in altre tue opere, non solo per questa idea che l’oggetto culturale è stato separato dal suo uso quotidiano ma anche per l’idea che l’oggetto ha una propria soggettività informata da una ritualità scomparsa. La mia ultima domanda è una domanda scherzosa: quanti fantasmi hai incontrato nel tuo lavoro e, se li hai incontrati, che tipo di rapporto hai avuto con questi fantasmi?
GPK: Secondo me i fantasmi sono infiniti. Mi piace pensare al fatto che ogni persona che abbia mai vissuto, a parte noi che siamo ancora qui, è morta. È un modo di quantificare i fantasmi che potrebbero esistere. Le piante possono essere fantasmi; anche gli animali, quando muoiono, diventano fantasmi, visto che non conosciamo i dettagli tecnici di ciò che costituisce un fantasma. Credo che dipenda soprattutto dalla definizione di fantasma, e anche questa è una questione di classificazione. È il contrasto tra un fantasma e una cosa immortale che dovrebbe fare qualcosa per sempre. Un fantasma sembra trattenere gli attributi specifici di un tempo passato, mentre un essere immortale incorpora sempre la sua definizione contemporanea come parte di sé.